L’incidenza dell’obesità e conseguentemente del diabete mellito di tipo 2, hanno subito un notevole incremento negli ultimi 50 anni. Se consideriamo i dati statunitensi possiamo osservare che dal 1985, quando la prevalenza dell’obesità era pari al 15%, nel 2010 secondo i dati del Centers for Disease Control and Prevention (CDC)1 la prevalenza del fenomeno nella popolazione adulta è maggiore del 30% ( www.cdc.gov/obesity/data/trends.html#State ). Pur essendo un panorama diverso rispetto alla popolazione europea, questo trend di incremento dell’ obesità è sovrapponibile in tutto il mondo sviluppato.

Il body max index (BMI) ottenuto dividendo il peso in kg per il quadrato dell’altezza misurata in metri (Kg/m2), rappresenta l’indicatore della quantità di grasso corporeo; secondo i criteri del World Healt Organization, distinguiamo tre gradi di severità dell’obesità: grado I BMI 30-34.9 kg m-2, grado II BMI 35-39.9 kg m-2 e grado III 40+ kg m-2.

L’obesità è una patologia multifattoriale che dipende non solo da fattori genetici, ma anche comportamentali e socioeconomici, quello che generalmente viene denominato “stile di vita”. Lo status socioeconomico, indubbiamente contribuisce all’epidemia alla quale stiamo assistendo, l’aumento del consumo di cibi ad alto contenuto energetico, la riduzione dell’attività fisica e quindi del dispendio calorico, rappresentano il principale fattore di rischio per lo sviluppo della malattia. Il benessere che caratterizza il nostro secolo non deve oscurare però altri fattori di rischio come l’etnia che è associata ad una diversa prevalenza dell’obesità e del sovrappeso in alcune aree geografiche. Alcuni gruppi etnici tendono ad un maggiore indice di massa corporea , ad esempio la popolazione del sud-est asiatico, mentre altri come la Polinesia hanno costituzionalmente una minore proporzione di massa grassa. Le differenze etniche si riflettono in variazioni della massa corporea, come la proporzione di massa ossea e di tessuto muscolare scheletrico e nella differenza della distribuzione del grasso corporeo. L’obesità centrale, rispetto all’accumulo di adipe periferico, è maggiormente associata all’aumentata resistenza insulinica e predispone pertanto al diabete di tipo II (DMII) e al diabete gestazionale (GDM).

Gli altri fattori che contribuiscono all’epidemia di obesità nel mondo sono la riduzione del fumo di sigaretta, che come afferma Simmons in un recente lavoro pubblicato su best Practice & Reserce Clinical Obstetrics and Gynaecology 1 , è noto essere associato ad incremento ponderale; la deprivazione di sonno, inoltre l’aumento dell’età materna aumenta le comorbidità e conseguentemente il rischio di GDM2.

La prevalenza del GDM oscilla tra l’1.3% e il 19.9% a causa dei criteri diagnostici non sempre omogenei. Studi di meta-analisi evidenziano che il rischio di diabete gestazionale è maggiore nelle donne sovrappeso (O.R. 3.56) e di gran lunga maggiore nelle pazienti con obesità (O.R. 8.56), rispetto alle donne con normale peso pregravidico. 1

Secondo le linee guida canadesi 7 la donna obesa ha un aumentato rischio di sviluppare GDM con un O.R. di 2.6 nella prima classe di obesità, e di 4.0 in caso di BMI pregravidico > a 35 kg/m 2 .

L’HAPO Study ha proposto i criteri per la diagnosi del GDM. Previa esecuzione di glicemia a digiuno nel primo trimestre, con valori glicemici diagnostici compresi tra 92 e 126 mg/dl; si procede all’esecuzione dell’Oral Glucose Tolerance Test (OGTT) con carico di 75 g di glucosio tra le 24 e le 28 settimane. I valori glicemici diagnostici per diabete gestazionale sono > a 92 mg/dl a digiuno, > a 180 mg/dl ad un’ora e valori > 155 mg/dl a due ore dal carico, è sufficiente un unico valore alterato per definire la malattia.

La piaga dell’obesità si ripercuote sulla gestione delle gravidanza che l’ostetrico si trova ad affrontare quotidianamente, qual‘è quindi il corretto aumento ponderale delle donne con BMI pregravidico elevato e quali sono i principali determinanti della macrosomia fetale nelle gravidanze complicate da un alterato metabolismo glucidico. E’ inoltre possibile prevenire l’eccessivo sviluppo fetale ottenendo un buon controllo metabolico oppure è necessario condurre la gravida ad un calo ponderale?

Nel 1990 l’Institute of Medicine (IOM) ha stabilito le linee guida sul corretto aumento ponderale (gestazionale weight gain - GWG) nella gravida obesa, che si basa necessariamente sul BMI pregravidico e considera che il peso materno influenza la deposizione di adipe fetale e conseguentemente il BMI del bambino e dell’adolescente 4 .

OBESITÀ E GRAVIDANZA

L’obesità complica il 28% delle gravidanze e circa nell’8% dei casi, noi ostetrici, ci troviamo a gestire donne con obesità grave. L’eccessivo peso pregravidico rappresenta un importante fattore di rischio per la gravidanza, predisponendo allo sviluppo di patologie metaboliche come il diabete mellito, l’ipertensione e le dislipidemie; può essere la causa di parto pretermine, macrosomia fetale e conseguente distocia di spalla e danno feto-neonatale al momento del parto. Aumenta il tasso di operatività vaginale, taglio cesareo e delle complicanze del postpartum come la metrorragia, gli eventi trombo embolici e l’infezione. Da non dimenticare inoltre le possibili complicanze anestesiologiche e di procedura chirurgica rese difficoltose dall’adipe.

L’ostetrico che si approccia alla donna affetta da obesità che ricerca una gravidanza , dovrebbe informare la paziente in merito alle possibili complicanze ostetriche ed internistiche conseguenti all’elevato BMI, le donne dovrebbero essere incoraggiate a ridurre il peso corporeo fino al raggiungimento di un BMI < 30 kg/m 2 , o ancor meglio < 25 kg/m2 (indicazione III-B delle raccomandazioni SOGC7 ) attraverso la modificazione dello stile di vita, un’adeguata alimentazione supplementata da 400 μg/die di acido folico ed esercizio fisico regolare quattro volte alla settimana (raccomandazione II -2B). Le linee guida canadesi suggeriscono il target di frequenza cardiaca ottimane durante lo svolgimento dell’attività fisica, in questa classe di pazienti, tra 102 e 124 bpm per le donne obese di età compresa tra i 20 e 29 anni, tra 101 e 120 bpm per pazienti di età maggiore ai 30 anni.

Anche l’ACOG3 suggerisce che, in assenza di complicanze ostetriche, la donna in gravidanza dovrebbe compiere 30 minuti di esercizio fisico aerobico quotidiano per la maggior parte dei giorni della settimana.

In caso di BMI > 40 kg/m2 e patologie associate, come il diabete mellito, le apnee notturne e le malattie cardiovascolari, può essere indicato il ricorso alla chirurgia bariatrica 10. In generale è consigliabile programmare la gravidanza almeno dopo 12-18 mesi dall’intervento per non esporre il feto al repentino calo ponderale. La paziente necessiterà di uno stretto monitoraggio clinico a causa del malassorbimento indotto dalle procedure bariatriche, rendendo necessaria la supplementazione di nutrienti essenziali come ferro, folati e vitamina B12.

AUMENTO PONDERALE NELLA GRAVIDA OBESA

L’institute of Medicine (IOM)4 ha stabilito quale fosse il corretto guadagno ponderale durante la gravidanza, considerando che l’incremento del peso corporeo si ripercuote sulla salute materna e sullo sviluppo neonatale. Dall’analisi della popolazione statunitense è emerso come le donne che iniziano una gravidanza dopo i 35 anni siano in maggior numero rispetto al passato; che in percentuale significativa sono sovrappeso oppure obese, e che durante la gestazione hanno un eccessivo aumento ponderale, il quale pone la salute della mamma e del feto a rischio.

Le nuove linee guida dello IOM si basano sulla riesamina delle linee guida del 1990 con qualche eccezione: considerano le categorie di BMI dell’ WHO e raccomandano un restrittivo range di aumento ponderale per ogni categoria, ricordando che il calo ponderale in gravidanza non è mai consigliabile.

BMI pregravidico
BMI (Kg/m2) (WHO)
Range di aumento ponderale totale (lbs)
Aumento ponderale nel 2° e 3° trimestre (media in lbs/sett)
Sottopeso
< 18.5
28-40
1 (1-1.3)
Peso normale
18.5-24.9
25-35
1 (0.8-1)
Sovrappeso
25.0-29.9
15-25
0.6(0.5-0.7)
Obesità (include tutte le classi)
≥30.0
11-20
0.5(0.4-0.6)

Tabella 1. Nuove raccomandazioni per l’aumento ponderale in gravidanza sulla base del BMI pregravidico

(1 lbs = 0,453 kg)

La commissione dello IOM ha inoltre proposto di intraprendere un programma di salute globale fatto di informazione ed educazione alla salute, controlli routinari del peso materno in gravidanza ma anche nel postpartum con il fine di controllare la ritenzione di peso ad un anno dal parto.

EFFETTI DELLA VARIAZIONE DEL PESO MATERNO SULLO SVILUPPO FETALE

Dai risultati emergenti dalle raccomandazioni dello IOM si evince che donne affette da obesità severa dovrebbero andare incontro ad un aumento ponderale compreso tra 5 e 9 kg durante la gravidanza. Pochi studi hanno fin’ora esaminato l’effetto del guadagno ponderale materno sull’outcome ostetrico e neonatale.

Dei tre studi esaminati dallo IOM, quello di Bodnear et al. individua che un aumento di peso compreso tra 2.2 e 5 kg in donne con obesità severa (classe III), è associato in meno del 10% dei casi ad alterazione della crescita fetale, quindi a feti large for gestational age (LGA) e small for gestational age (SGA).

Contrariamente Hinkle et al.11 suggerisce che il ridotto aumento di peso in gravidanza sarebbe correlato, come atteso, ad una maggiore incidenza di feti SGA nelle donne normopeso. In questa classe di pazienti l’aumento ponderale considerato accettabile è compreso tra 0.1 e 9.0 kg.

Nelle donne obese di classe II e III (BMI da 30 a 39.9 kg/m2) la perdita di peso tollerabile in corso di gravidanza è di non più di 4.9 kg, un calo ponderale superiore ai 5 kg è associato significativamente a feti SGA. Questi risultati suggeriscono che la variazione ponderale accettabile nelle classi di obesità II e III è compresa tra -4.9 kg e + 4.9 kg.

Si osserva inoltre che l’associazione tra guadagno ponderale in gravidanza e peso neonatale è più forte nelle donne obese di classe I.

Nello studio pubblicato da Blomberg 5at al. nel maggio del 2011, viene considerato l’outcome ostetrico nelle tre diverse classi di obesità del WHO sulla popolazione svedese, considerando in ognuna di queste il calo ponderale, il ridotto aumento ponderale (0-4.9 kg), l’aumento raccomandato dallo IOM (5-9 kg) e l’aumento eccessivo di peso in gravidanza.

Dall’analisi dei dati emerge che le donne con obesità di gradi II e III che perdono peso in gravidanza hanno una diminuzione del rischio di taglio cesareo e di macrosomia fetale; non ci sono evidenze sulla diminuzione del rischio di preeclampsia, metrorragia del postpartum, operatività vaginale e basso indice di Apgar alla nascita; ma in questo gruppo risulta raddoppiato il rischio di feti SGA, se paragonato al gruppo di donne con aumento ponderale raccomandato dallo IOM.

In tutte le classi di obesità, le donne con eccessivo aumento ponderale nel corso della gestazione vanno incontro ad un aumentato rischio di complicanze ostetriche (taglio cesareo, operatività vaginale, sanguinamento eccessivo al momento del parto, macrosomia fetale e distress feto-neonatale).

Alcuni studi raccomandano quindi la perdita di peso in gravidanza, sostenendo che ciò riduca il rischio di outcome avversi8.

Da un recente studio pubblicato da Beyerlein et al. su BJOG9, che studia con un’analisi retrospettiva una popolazione di donne bavaresi, emerge come il calo ponderale, di meno di 5 kg, in gravidanza sia effettivamente associato ad una diminuzione del rischio di preeclampsia e di taglio cesareo non elettivo nelle donne obese; ma non si è dimostrato alcun miglioramento in termini di outcome nelle classi di donne sovrappeso e normopeso. In tutti i gruppi di donne, indipendentemente dai BMI, si è osservata una correlazione significativa tra perdita di peso ed incremento di feti SGA e riduzione di feti LGA al parto. Da questi risultati, in accordo con quanto pubblicato da Kiel et al. ,si evince che il calo ponderale in gravidanza non conduce ad alcun beneficio in donne normopeso e sovrappeso, mentre riduce l’incidenza di PE e di TC non elettivo nelle obese ma con un costo in termini di benessere fetale, poiché correla significativamente con una ridotta crescita intrauterina del feto.

DIABETE GESTAZIONALE E AUMENTO PONDERALE IN GRAVIDANZA

Parallelamente all’epidemia di obesità e di DMII, è aumentato il numero di donne affette da diabete mellito di tipo II che intraprendono una gravidanza. L’infrequente diagnosi precedente alla gravidanza e la mancanza di cure appropriate, aumentano le complicanze dovute alla coesistenza di obesità ed alterazioni del metabolismo glucidico.

Il diabete gestazionale complica il 10% delle gravidanze12 in tutto il mondo ed è associato a morbidità materna e neonatale. Coloro i quali si interessano di diabete i gravidanza sono concordi nel sostenere l’importanza della precocità della diagnosi; l’iperglicemia durante le prime otto settimane di gravidanza aumenta significativamente il rischio malformativo, essendo questa l’epoca in cui avviene l’organogenesi. Si stima che nell’85% delle gravidanze complicate da iperglicemia non si sviluppano malformazioni maggiori, ed in caso di danno embrionale precoce questo esita frequentemente in aborto spontaneo precoce.

Poiché la diagnosi ed il trattamento del GDM può migliorare l’outcome della gravidanza (Crowler- Achois 2005), le modificazioni dietetiche, l’automonitoraggio glicemico, l’educazione e il monitoraggio del peso materno sono di fondamentale importanza. Rimane da chiarire se le raccomandazioni dello IOM siano applicabili alle donne affette da diabete, poiché il persistente stato iperglicemico contribuisce all’aumento della crescita intrauterina del feto e l’obesità materna aumenta la resistenza insulinica; quindi l’applicazione delle linee guida dedicate ad una popolazione a basso rischio potrebbe non essere consona.

L’ACOG nel novembre 2008 ha pubblicato un lavoro che si è proposto di esaminare l’associazione tra aumento ponderale ed outcome della gravidanza in caso di GDM16. E’ stato osservato un aumentato rischio di incidenza di taglio cesareo e di feti di peso > 4000 grammi in donne che hanno avuto un incremento ponderale maggiore rispetto a quanto suggerito dallo IOM per il proprio BMI pregravidico; mentre nel gruppo di donne con aumento ponderale inferiore all’atteso e che avevano ottenuto un miglior controllo glicemico con la dieta, risultava una maggiore incidenza di feti small for gestational age.

In questa coorte, l’aumento ponderale superiore rispetto a quello suggerito dallo IOM è associato a feti large for gestational age (LGA). In questi casi oltre alle implicazioni a breve termine, come la macrosomia ed i rischi ad essa connessi al momento del parto, è dimostrato che i figli di donne affette da GDM che sono stati macrosomi alla nascita hanno un aumento significativo del rischio di sindrome metabolica (obesità, ipertensione, dislipidemia e diabete mellito) dai 6 anni d’età6.

DIETA E OBESITA’ IN GRAVIDANZA

Attualmente non ci sono pubblicazioni che attestino la quota minima di carboidrati necessaria per garantire la salute della donna in stato di gravidanza e della sua prole.

Lois Jovanovic nel 2000 14 pubblicava su Diabetes and Preganancy un’interessante lavoro sul ruolo della dieta e del trattamento insulinico nel diabete in gravidanza.

Secondo questa analisi, la prescrizione dietetica rivolta alle gravide diabetiche, consta di 24-30 Kcal/Kg, suddivise in tre pasti e tre snacks quotidiani con una quota di carboidrati inferiore al 40%.

In particolare 30 Kcal/Kg per le gravide normopeso, 24 Kcal/Kg nelle sovrappeso e 12 Kcal/Kg per le donne obese.

Da questo lavoro si evince che un buon controllo materno riduce i rischio di macrosomia fetale e che l’elemento che correla in modo più significativo con questo parametro è l’iperglicemia postprandiale ad 1 ora dal pasto. Il dato si riferisce ad un valore di glicemia capillare > 120 mg/dl, equivalente a 140 mg/dl di glicemia nel sangue venoso.

Combs et al, conferma quanto detto ma sostiene che la glicemia postprandiale < a 130 mg/dl da sangue venoso correla positivamente con un alto rischio di feti SGA; inoltre l’ipoglicemia e la chetosi giocano un ruolo rilevante nello sviluppo del peso fetale.

Magee et al, valutano l’effetto della restrizione dietetica severa ( 1.200 Kcal/die) in gravidanza.

Nei due gruppi di donne sottoposte rispettivamente a dieta giornaliera di 1.200 Kcal/die e 2.400 Kcal/die non si sono notate differenze significative nei livelli glicemici postprandiali ed a digiuno.

Emerge però che dopo una settimana di restrizione dietetica severa, si sviluppano chetonemia e chetonuria, che correlano con un basso indice intellettivo della prole.

Non è stata evidenziata una correlazione significativa tra l’ipoglicemia materna e la funzione intellettiva della prole; lo scores di Stanfort-Binet test correla inversamente con la concentrazione di betaidrossibutirrato e la concentrazione di acidi grassi nel plasma. Secondo questi dati una dieta correttamente bilanciata e non chetonemica dovrebbe prevedere circa 1.500-1.800 Kcal/die.

L’American Diabetes association Clinical Practice Raccomandation è concorde nel sostenere che la restrizione dietetica nelle gravide obese non debba essere inferiore alle 1.800 Kcal/die 15, prevedendo una riduzione dell’introito calorico quotidiano del 30-33% rispetto al periodo pregravidico.

Buchanan ha comparato il livello glicemico, insulinemico, di acidi grassi liberi e betaidrossibutirrato in donne sottoposte a brevi periodi di digiuno, dimostrando che dopo 18 ore si assiste ad un calo glicemico repentino ma la glicemia rimane elevata nel gruppo di donne affette da GDM, rispetto al gruppo di obese. I livelli insulinemici si riducono parallelamente nei due gruppi, mentre i livelli di acidi grassi liberi aumenta nelle donne obese nelle prime 12 ore di digiuno per mantenersi poi costante. Da ciò si evince che periodi di digiuno tra i pasti vengono ben tollerati dalle gravide obese.

Nel 2002 lo IOM Dietary Reference Intake Report ha individuato nei 175 grammi giornalieri 4 la quota minima di carboidrati da assumere in gravidanza; 33 grammi/die in più rispetto alle donne non gravide. Secondo alcuni ciò appare arbitrario, i carboidrati, così come le calorie, andrebbero differenziate sulla base delle necessità individuali.

In caso di diabete comunque, la riduzione dell’introito di carboidrati giornaliero è associata ad una riduzione della necessità di insulina ed un significativo miglioramento dell’outcome fetale (Californian Diabetes and Pregnancy Program Fact Sheet, http/cdph.ca.gov/programss/CDAPP).

Alcuni studi 12 valutano l’impatto di diete a basso indice glicemico in gravidanze non complicate da GDM e suggeriscono l’aumento del rischio di feti SGA. Uno in particolare suggerisce che nelle gravide diabetiche sottoposte a trattamenti dietetici a basso indice glicemico, la richiesta di insulina è ridotta senza effetti fetali avversi 13.

Secondo quanto viene pubblicato su J Clin Endocrinol si raccomanda di modificare il contenuto calorico e dietetico in gravidanza, sulla base del peso e dell’altezza della paziente ed in base alla sua tolleranza glucidica.

Possiamo consigliare alle pazienti di effettuare pasti piccoli e frequenti, piuttosto che pasti cospicui, con lo scopo di ridurre il fabbisogno insulinico al pasto e controllando quindi l’escursione glicemica. La colazione dovrebbe essere povera in carboidrati, poiché la resistenza insulinica è alta al mattino e ciò potrebbe potenziare l’intolleranza glucidica. Una dieta ricca di fibre, e a ridotto indice glicemico, può aiutare a ritardare l’assorbimento dei cibi inducendo un picco glicemico più duraturo con un’escursione iniziale ridotta.

In caso di iperglicemie persistenti dopo una settimana di aggiustamento dietetico ed attività fisica aerobica moderata, è necessario iniziare la terapia insulinica, fino all’ottenimento di valori glicemici compresi tra 65 e 90 mg/dl a digiuno ed inferiori a 120 mg/dl ad un’ora dal pasto.

CONCLUSIONI

Parallelamente all’epidemia di obesità e di DMII, è aumentato il numero di donne affette da diabete mellito di tipo II che intraprendono una gravidanza. L’infrequente diagnosi prima del concepimento e la mancanza di cure appropriate, aumentano le complicanze dovute alla coesistenza di obesità ed alterazioni del metabolismo glucidico.

L’ institute of Medicine ha stabilito quale fosse il corretto guadagno ponderale durante la gravidanza in base al BMI pregravidico. Dai risultati emersi si evidenzia che donne affette da obesità severa dovrebbero ottenere un aumento ponderale gravidico compreso tra 5 e 9 kg.

In relazione al calo ponderale in gravidanza, non vi sono a tutt’oggi evidenze sul miglioramento dell’outcome ostetrico; contrariamente si sottolinea una correlazione significativa con lo sviluppo di feti small for gestationa age, e con la produzione di corpi chetonici che compromettono lo sviluppo del sistema nervoso fetale.

Dall’analisi gli autorevoli studi proposti, viene validato che l’aumento ponderale superiore alle raccomandazioni dello IOM è associato ad esiti ostetrici e perinatali sfavorevoli, pertanto le suddette linee guida sono applicabili anche nelle gravide affette da diabete gestazionale.

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