Il professor Roberto Furlan, presidente dell’Associazione Italiana di Neuroimmunologia (Aini) e della International Society of Neuroimmunology (Isni), è Group Leader dell’Unità di Neuroimmunologia Clinica, Istituto di Neurologia Sperimentale, Divisione di Neuroscienze dell’Istituto San Raffaele, Milano, nonché professore associato di Patologia Generale all’Università Vita e Salute del San Raffaele. Il Prof. Furlan ha recentemente tenuto un seminario al Burlo sul tema “Cellule mieloidi regolatrici in neuroinfiammazione”, che verteva sul potenziale ruolo protettivo dell’immunità innata nella neuroinfiammazione sperimentale e umana. In quell’occasione ha concesso un’intervista alla newsletter dell’Irccs, spiegando in modo semplice e chiaro, da vero divulgatore, il complesso contenuto delle sue ricerche e del tema affrontato in occasione del seminario.
Professor Furlan, qual è stato il focus del seminario tenuto al Burlo?
Se il cervello è considerato il sistema più complesso che abbiamo e il sistema immunitario è sicuramente il secondo come livello di complessità, il neuro immunologo si occupa della ricerca sull’interazione fra i due sistemi e, quindi, è spesso davvero difficile rendere in modo semplice e divulgativo ciò su cui lavoriamo. Tuttavia ci possiamo provare. Nella sostanza noi possiamo dividere il sistema immunitario in due grandi “braccia”.
Da un lato abbiamo il sistema immunitario adattativo, che è quello che noi tutti conosciamo per le vaccinazioni. Si tratta di un sistema immunitario che riconosce in maniera super specifica, come se avesse un identikit a disposizione, l’antigene “esterno” potenzialmente dannoso, ed è in grado di colpirlo con tanti “proiettili” diversi, gli anticorpi, ma anche altri composti ad es. le citochine, in maniera molto selettiva. É ciò che facciamo quando stimoliamo il sistema immunitario con una vaccinazione costituito da linfociti B, quelli che producono anticorpi, e linfociti A, quelli che producono citochine. La vaccinazione mette a contatto il sistema immunitario con un bersaglio specifico, permettendone la neutralizzazione ed eventualmente la distruzione. L’immunità adattativa se parte da zero ci mette una quindicina di giorni per arrivare a colpire in modo preciso il bersaglio individuato; talvolta può essere tardi come fu, ad esempio, per i primi morti del covid ma nella maggior parte dei casi è estremamente efficace. Il richiamo della vaccinazione accorcia questi tempi, fino a 24/48 ore per essere efficace.
Dall’altro lato abbiamo l’immunità innata che si identifica con il vecchio termine di “infiammazione cellulare”. É un sistema di immunità meno specifico che riconosce una data struttura come un potenziale nemico e reagisce alla sua presenza in modo automatico, ma non sempre efficace e sempre piuttosto aspecifico, con possibili effetti infiammatori che si estendono al tessuto od organo colpito. Il 99% delle possibili infezioni che ci possono aggredire è in realtà combattuto dall’immunità innata.
Supponendo, dunque, di considerare i nostri sistemi immunitari come il nostro armamentario pronto a difenderci dalle aggressioni esterne, l’immunità innata lavora come un esercito che avanza reagendo contro tutti i nemici che trova sul suo cammino, mentre il sistema immunitario adattivo si comporta come un cecchino che prende di mira solo obiettivi specifici.
Consideriamo ora il fenomeno dell’autoimmunità. Essa insorge quando il “cecchino” immunologico colpisce un bersaglio sbagliato, cioè una struttura che appartiene all’organismo stesso (il cosiddetto self antigen in inglese).
È importante sottolineare che un ruolo fondamentale dell’immunità innata è il controllo dell’attività dell’immunità adattiva. È, infatti, l’immunità innata che presenta in modo adatto “l’identikit” con la presentazione d’antigene in modo adatto a evocare una risposta adeguata. L’immunità innata è infatti costituita anche da cellule “presentatrici” che legano la struttura antigenica o parte di essa e la presenta alle cellule dell’immunità adattiva in modo da evocarne la risposta immunitaria più robusta ed efficace. Talvolta la presentazione dell’antigene è errata, l’antigene fa parte del patrimonio proteico dell’organismo, e questo contribuisce a evocare una reazione autoimmunitaria.
Nel seminario tenuto nel vostro Istituto ho concentrato la mia attenzione soprattutto su quest’ultimo aspetto che finora è stato esplorato pochissimo. L’obiettivo è capire quali siano i meccanismi con i quali l’immunità innata, che finora noi consideravamo “l’esercito che spara a casaccio”, lavori in realtà in modo molto più raffinato e controlli in gran parte, forse addirittura in maniera decisiva, l’attività dei “cecchini” ossia dell’immunità adattiva. Comprendere, dunque, quando e dove questa attività di presentazione dell’antigene stia commettendo errori e come questo meccanismo si possa correggere è il cuore della nostra ricerca.
Durante il seminario ha fatto più volte riferimento alla sclerosi multipla…
Personalmente mi occupo da sempre di malattie neuro infiammatorie e la sclerosi multipla (Sm) è la più nota e diffusa. Essa consiste principalmente in una patologia infiammatoria spesso multi lesionale del sistema nervoso centrale con demielinizzazione delle fibre nervose ed evoluzione a formare placche sclerotiche dove il tessuto nervoso è molto impoverito o assente. Le persone con sclerosi multipla sono circa 130mila in Italia dove si fa una diagnosi di questa malattia ogni quattro ore, tant’è che non la si può nemmeno considerare più una malattia rara perché l’incidenza è di una persona ogni mille.
È una malattia che insorge principalmente in una data fascia d’età o può manifestarsi lungo tutto l’arco di vita?
È una domanda interessante. L’epidemiologia della malattia, infatti, sta cambiando. Un tempo il picco di prevalenza, ossia dell’età in cui facciamo la diagnosi, era fra i 20 e 35 anni, ma ci stiamo accorgendo che l’età di esordio della malattia sta salendo. Personalmente non so più quante diagnosi ho fatto negli ultimi cinque anni a persone che hanno superato il mezzo secolo di vita. Una volta l’esordio tardivo era un fatto così raro da far sorgere il dubbio che si trattasse effettivamente di sclerosi multipla. Oggi, dunque, sappiamo che sta cambiando l’epidemiologia anche se non sappiamo quali siano le cause che stanno modulando le forme di malattia. La prevalenza, del picco epidemiologico, che prima era molto appuntita, si sta appiattendo e quindi, abbiamo sempre più casi di esordio in età infantile o tardivo. Tutto ciò comporta anche un costo sociale enorme e sempre crescente.
Esistono più tipologie di Sm o è una malattia unica?
La comunità scientifica internazionale sta ridefinendo le forme di malattia. Da una classificazione tassonomica, basata sia sulla diagnosi clinica, ma anche biologica, riconosciamo due forme di sclerosi multipla: la forma iniziale che ha ricadute e remissioni per cui le persone hanno sintomi acuti, tendono a recuperare nell’arco di due o tre settimane e poi ricadono, in un ciclo continuo; e la forma progressiva che peggiora via via e tende ad evolvere costantemente. In realtà la maggioranza degli scienziati, me compreso, tendono, però, a pensare che le due forme non siano altro che due facce della stessa malattia: la progressione, cioè, comincia fin dall’inizio solo che noi non sempre ce ne accorgiamo e nelle persone in cui la fase di ricaduta e remissione non è visibile clinicamente noi vediamo solo la fase progressiva, ma in realtà la malattia è la stessa. Di tutto ciò abbiamo forti evidenze biologiche.
Qual è la situazione delle cure per questa malattia così diffusa e invalidante e che impatto potranno avere le vostre ricerche?
La sclerosi multipla è una malattia autoimmune e tutti i farmaci che abbiamo attualmente sono molto efficaci contro l’immunità adattiva, per spegnere, cioè, i “cecchini”, ma non necessariamente risolvono alla radice l’autoimmunità; in altri termini, riusciamo a controllare la malattia, ma non a guarirla. Ciò, in realtà, non vale solo per la sclerosi multipla, ma per tutte le malattie autoimmuni che conosciamo. Il quesito che ci stiamo ponendo è se non sia il caso di modulare l’immunità innata, quella che presenta l’antigene ai “cecchini”. Dobbiamo forse andare lì a spegnere il circuito perverso che porta i “cecchini” a sparare nel posto sbagliato. Per farlo, però, dobbiamo capire come funziona il dialogo fra immunità innata e immunità adattiva. In questo momento ci troviamo in una fase ancora preliminare.
Quindi al momento non c’è ancora alcun risvolto clinico?
In effetti per una piccolissima parte delle nostre ricerche siamo in una fase clinica con effetti importanti su uno specifico aspetto diagnostico. Quando in una persona facciamo una risonanza cerebrale e vediamo che ha una lesione demielinizzante (cioè che colpisce un’area mielinica, il rivestimento dei nervi, senza il quale l’assone, la fibra nervosa, lavora molto lentamente e in modo inefficace) si possono distinguere almeno quattro malattie possibili: la sclerosi multipla, la mogad (malattia associata agli anticorpi anti-MOG), la neuromielite ottica o la mieloencefalopatia acuta disseminata (adem). Mogad e adem sono tipiche dei bambini. La Sm è molto più comune, le altre tre molto più rare. In questa fase è importantissimo fare velocemente la diagnosi differenziale perché la terapia è diversa determinando in alcuni casi un andamento gravemente ingravescente; quindi, non intervenire tempestivamente può generare gravi disabilità. Fare, dunque, una diagnosi corretta, il più velocemente possibile, addirittura nell’arco di ore, può essere clinicamente molto importante. Noi riusciamo a distinguere la Sm dalle altre forme mediante la caratterizzazione dell’immunità innata (spesso negletta e poco studiata) perché l’attivazione immunologica nella sclerosi multipla e nelle altre tre malattie è differente e, quindi, usando gli opportuni marcatori siamo in grado di individuare in un paio d’ore se si tratti di Sm o di una delle altre malattie autoimmuni citate.
È un dato acquisito, dunque, che l’immunità innata giochi un ruolo nelle malattie autoimmuni?
Certo. Nessuno lo mette più in dubbio il problema vero è capire fino in fondo quale sia questo ruolo. Per rimanere alla metafora militare che abbiamo usato all’inizio, si può considerare l’immunità innata, pur essenziale per protegge l’organismo dall’invasione di batteri e virus, come una sorta di “fanteria” “automatica, “carne da cannone”, che si comporta in modo standard e può causare reazioni autoimmunitarie dannose. Forse, invece, l’immunità innata potrebbe agire come una sorta di regista, un generale che sta sulla collina e che guida sia l’azione dei cecchini, sia i movimenti delle truppe e che magari, ogni tanto commette errori, indicando gli obiettivi sbagliati cioè quelli appartenenti al corpo stesso del paziente, e quindi producendo la malattia autoimmune. Capire bene come funziona questo meccanismo può permettere di identificare strategie terapeutiche per contenere l’insorgere di autoimmunità. Le autoimmunità, infatti, da un punto di vista epidemiologico si stanno espandendo in modo enorme. Per fare un esempio, è abbastanza probabile che nell’aula in cui ho parlato al Burlo, dove c’erano circa 70 persone, vi fossero almeno tre o quattro soggetti con patologie autoimmuni come, per esempio, la tiroidite di Hashimoto, la psoriasi o la celiachia, ecc., ecc. Le malattie autoimmuni sono la peste del terzo millennio, più delle pandemie.
Vi siete fatti un’idea del perché di questa esplosione?
Sicuramente non esiste una causa unica, ma un aspetto che colpisce è che non solo aumenta la numerosità delle malattie autoimmuni nei Paesi occidentali, ma si manifesta sempre più nelle aree che stanno adottando stili di vita che consideriamo evoluti. Non è una questione solo di patogeni, ma di comportamenti igienici cambiati nel corso degli anni o decenni. L’immunità, infatti, è un sistema che è stato selezionato in un mondo che non esiste più. Fino a meno di un secolo fa, la grande maggioranza della popolazione conviveva con animali da cortile, con pavimenti in terra, in generale in ambienti più naturali e meno igienizzati, mangiava cibi meno “puliti” (si pensi all’insalata che si raccoglieva da terra e si lavava con acqua, senza eliminare le uova degli ossiuri, o parassiti intestinali). Oggi viviamo in ambienti super igienizzati, facciamo pochissima vita all’aria aperta, respiriamo aria condizionata e filtrata in continuazione (negli uffici, nei negozi, nelle scuole, ecc.), mangiamo cibi controllatissimi, disinfettati, igienizzati, “sterili”. Oggi, dunque, il nostro sistema immunitario che era abituato a essere esposto a milioni di patogeni diversi, si trova a doverne gestire qualche centinaio e, quindi, finisce spesso per commettere errori, per un eccesso di difesa che genera le malattie autoimmuni.
Quindi, avete l’evidenza che nei Paesi meno sviluppati, meno “igienizzati”, con stili di vita più a contatto con la natura, le malattie autoimmuni sono meno diffuse?
Esatto. Nell’Africa sub-sahariana, nell’Africa rurale, l’autoimmunità è meno diffusa. Ci sono, poi, ricerche, anche in Italia, che dimostrano che la diffusione di malattie autoimmuni è più alta fra chi vive solo in città, scende in chi vive fuori città e arriva poi in città per lavorare e scende ancor più drasticamente fra chi vive in campagna senza spostarsi mai o spostandosi raramente. In sostanza, possiamo dire che da questo punto di vista essere a contatto con un po’ più di batteri ci fa bene. Vivendo all’aperto, ad esempio, si respirano milioni di spore con le quali chi passa la gran parte della giornata in un ufficio o in appartamento non viene mai a contatto. Banalmente chi è a contatto con animali domestici (se non li lava in maniera compulsiva!), che portano a scambiarsi antigeni, ha minori rischi di contrarre malattie autoimmuni. Lo stile di vita cittadino e moderno ha fatto sì che l’esplosione delle circa 100 malattie autoimmuni classificate abbia avuto un aumento logaritmico negli ultimi anni. Non solo la psoriasi, la tiroidite di Hashimoto, la celiachia sono diventate quasi delle pandemie, ma anche malattie autoimmuni più gravi, come la sclerosi multipla o il diabete autoimmune si stanno diffondendo sempre di più nei Paesi evoluti e nettamente di più nelle città rispetto alle campagne.
Nel suo seminario ha fatto un accenno a un possibile vaccino per la Sm, di cosa si tratta?
L’ho fatto rispondendo a una domanda. Non amo parlarne perché non so bene che opinione avere e ho paura di ciò che si possa dire in questa fase senza creare illusioni. Si può tuttavia dire che l’ipotesi nasce perché due anni fa il professor Alberto Sechi, epidemiologo di Harvard, ha reso pubblici dati molto interessanti (basati su una ricerca gigantesca su oltre nove milioni di sieri di soldati statunitensi) che hanno dimostrato che tutti i soldati e soldatesse che sviluppavano la Sm o erano già infettati dal virus erpetiforme di Epstein Barr (quello responsabile della mononucleosi infettiva) o si infettavano e diventavano siero positivi prima di sviluppare la Sm. Senza entrare in dettagli tecnici, le ricerche di Sechi dimostrano in maniera abbastanza convincente che l’infezione da virus di Epstein Barr è una condizione necessaria, ma non sufficiente, nell’adulto per sviluppare la sclerosi multipla. Necessaria, ma non sufficiente perché negli adulti il virus Epstein Barr è molto diffuso e perché si sviluppi la Sm servono altre condizioni che per fortuna in molti casi non si verificano. L’ipotesi, suffragata da dati epidemiologici e sperimentali, è che senza l’Epstein Barr l’Sm non si sviluppa. In questo senso, una proposta di alcuni ricercatori (non mia) è che se ci vaccinassimo tutti da bambini contro il virus di Epstein Barr, forse nessuno svilupperebbe la Sm. Al momento è un’ipotesi di lavoro. In realtà, ci sono già alcune case farmaceutiche che stanno approntando vaccini contro l’Epstein Barr. Va, però, ricordato che individuare vaccini efficaci contro il virus di Epstein Barr è molto difficile perché sono virus molto complessi. Essi arrivano ad avere 80/100 geni potenzialmente mutanti, che hanno tanti siero tipi, (molto più, per dire, del virus del Covid). Si pensi, ad esempio, che per l’herpes simplex di tipo due (l’herpes genitale) che è endemico nei college statunitensi (a causa dell’alta promiscuità sessuale), si è provato per anni a sviluppare un vaccino (che si sarebbe venduto come il pane), ma non ci si è mai riusciti. Quindi, non si può essere certi che si possa trovare un vaccino efficace per l’Epstein Barr. Il tentativo, però, date le conoscenze attuali, ha una sua giustificazione scientifica, anche perché ci sono vaccini per malattie erpetiche che funzionano benissimo, come ad esempio quello per la varicella, utile per gli anziani per prevenire l’insorgenza del fuoco di Sant’Antonio, una recidiva grave della varicella primaria Si tratterebbe, comunque, seppure utilissimo, di un vaccino che, anche qualora fosse individuato, potrebbe tutelare dalla Sm chi non l’ha ancora sviluppata, ma non chi l’ha già contratta.