Uno studio condotto al Burlo Garofolo ha permesso di evidenziare l’impatto dei microrganismi dell’ambiente ospedaliero sui neonati e di attivare procedure di sorveglianza di nuova generazione.

Tutelare i pazienti, soprattutto se appena nati, è prerogativa imprescindibile degli ospedali dove, tuttavia, la lotta ai microrganismi patogeni e resistenti agli antibiotici è un problema emergente di sanità pubblica. Caratterizzare e monitorare in modo innovativo la popolazione microbica degli ambienti ospedalieri, e verificarne l’impatto sui pazienti fragili, rappresenta un punto di forza del Burlo Garofolo.

Ricerche condotte su un gruppo di neonati prematuri, nati con parto naturale, e successivamente ricoverati in terapia intensiva neonatale (Tin), hanno dimostrato come il microbioma ambientale, oltre a quello materno, sia in grado di contribuire alla costituzione della flora batterica del neonato fin dai primi giorni di vita e, quindi, di influenzare la presenza di batteri buoni o cattivi che possono contribuire allo stato di salute o di malattia.

Questo è quanto emerso da uno studio condotto dalla Struttura Semplice Dipartimentale di Microbiologia Traslazionale Avanzata diretta dalla professoressa Manola Comar, recentemente pubblicato sulla rivista “Pathogens” (link allo studio).

«Su una trentina di neonati prematuri – commenta la ricercatrice Carolina Cason, primo autore dello studio – abbiamo effettuato tamponi nasali subito dopo il parto e dopo un periodo di degenza in terapia intensiva neonatale, confrontando il microbioma, ovvero l’insieme dei microrganismi presenti in questo caso nella cavità nasale dei piccoli, con il microbioma dell’ambiente della sala parto e della terapia intensiva. Abbiamo rilevato la presenza sia di microrganismi tipici del tratto vaginale della madre, sia di quelli ambientali presenti sulle varie superfici esaminate.  Inoltre, si è osservato un aumento della colonizzazione dei neonati da parte dei batteri ambientali all’aumentare del periodo di degenza in Tin. Sono stati poi indagati i geni dell’antibiotico resistenza relativi ai batteri ambientali e si è visto che questi erano associati al tempo di permanenza in terapia intensiva».


Le analisi per identificare i microrganismi e la loro resistenza agli antibiotici sono state effettuate mediante l’innovativa tecnica chiamata Ngs (Next Generation Sequencing – Sequenziamento di nuova generazione) che permette di evidenziare tutti i microrganismi e i geni di resistenza presenti in un certo campione ambientale e la loro associazione funzionale.
Questo studio ha permesso di capire quanto sia importante un controllo periodico del  grado di colonizzazione batterica ambientale, ai fini di prevenire eventuali fonti di infezioni e attuare tempestivamente i protocolli di sanificazione o di eventuale trattamento del paziente.


«Dopo questo lavoro, – prosegue Carolina Cason – e in accordo con l’attuazione del piano di lotta all’antibiotico resistenza promosso dal Ministero della Salute, in collaborazione con l’Università di Ferrara e con la Direzione Sanitaria dell’Irccs, è stato introdotto, in alcuni reparti, un sistema di sanificazione alternativo che consiste nell’utilizzo di un detergente contenente probiotici. Questi microrganismi “benefici”, oltre a non colonizzare il paziente, aderendo alle superfici su cui sono applicati, e consumando tutte le fonti di cibo disponibili, non permettono lo sviluppo dei microrganismi patogeni.  I risultati osservati finora sono promettenti e, una volta valutato il funzionamento di questo sistema su larga scala, speriamo si possa estenderne l’utilizzo».

C.F.

 

Carolina Cason, ricercatrice del laboratorio di Microbiologia Traslazionale Avanzata

Data creazione: 
06/07/2021
Data di aggiornamento: 
06/07/2021
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