Uno studio di ricerca svolto dai ricercatori dell'IRCCS Burlo Garofolo indaga i meccanismi di farmacoresistenza nel trattamento del carcinoma ovarico, partendo dallo studio degli esosomi, particelle lipidiche che trasportano proteine, Rna e Dna e che sono il mezzo con il quale tutte le cellule (comprese quelle tumorali) comunicano fra di loro.

IL RUOLO DELLE PIASTRINE NEL CARCINOMA OVARICO

Prossimo alla pubblicazione uno studio del Burlo condotto dalle dottoresse Stefania Biffi e Barbara Bortot all’interno della piattaforma di studio sulla chemio resistenza.

Dottoressa Biffi, qual è la diffusione attuale del carcinoma ovarico e quale la sua guaribilità?

Attualmente il tumore all’ovaio in Italia colpisce circa 5mila donne ogni anno con una sopravvivenza media a cinque anni che purtroppo non supera il 40% e questi dati così drammatici sono legati al fatto che al momento non esistono uno screening diffuso e una diagnosi precoce. Di fatto, la maggior parte dei carcinomi ovarici sono diagnosticati in uno stadio avanzato, il che, ovviamente, diminuisce le possibilità di guarigione. Attualmente la cura è affidata a un’integrazione fra chirurgia e chemioterapia, ma, purtroppo, questa associazione non sempre è in grado di assicurare una regressione completa della patologia, quindi la malattia si ripresenta, fondamentalmente perché si instaura una chemio-resistenza.

Ci sono progressi in vista dal punto di vista delle cure?

In anni recenti c’è stata una vera e propria rivoluzione. Recentemente sono arrivati i risultati clinici presentati alla comunità scientifica relativi a numerosi nuovi farmaci, fra cui farmaci Parp Inhibitors usati anche nel tumore alle ovaie come terapie di mantenimento in gradi avanzati del carcinoma che, secondo quanto dicono gli oncologi, permetterebbero un significativo avanzamento delle cure e in alcuni casi avrebbero permesso una regressione del tumore. Stiamo, però, parlando ancora di un tumore per il quale l’armamentario terapeutico a disposizione è ancora piuttosto povero. Infatti, questi Parp Inhibitors funzionano solo su pazienti che hanno un determinato assetto genetico del tumore.

In questo contesto, su cosa si incentra la vostra ricerca?

Noi siamo interessati a capire meglio i meccanismi di farmacoresistenza, a prevederla e dare spunti per i target farmacologici. In particolare, abbiamo cominciato con uno studio, pubblicato lo scorso anno su Molecular Oncology, che riguardava gli esosomi, particelle lipidiche che trasportano proteine, Rna e Dna e che sono il mezzo con il quale tutte le cellule (comprese quelle tumorali) comunicano fra di loro. Gli esosomi che oggi sono diventati il nostro filone principale d’interesse. Essi riscuotono un grande interesse da parte dell’industria farmaceutica perché ci sono diverse aziende in varie parti del mondo che stanno realizzando tools diagnostici per gli oncologi il cui obiettivo è consentire la cosiddetta “biopsia liquida”. Gli esosomi, infatti, sono isolati nei fluidi biologici (sangue, urine, ecc.) e analizzati. Noi, nello specifico, isoliamo gli esosomi prendendoli dalla ascite (il liquido che si forma nel peritoneo della paziente che ha una carcinosi peritoneale e, quindi, dove c’è stata metastasi del carcinoma ovarico) della paziente con carcinoma ovarico.  Gli esosomi rappresentano una “piattaforma”, una biopsia liquida, sulla quale poter studiare i biomarcatori che ci indicano lo status biologico del tumore, gli eventuali meccanismi di resistenza e altri aspetti significativi.

Perché avete scelto di utilizzare l’ascite per individuare gli esosomi e non il sangue o le urine?

Perché l’ascite si preleva durante la laparoscopia e gli interventi chirurgici e ancor più comunemente per paracentesi ossia quando l’ascite aumenta e la paziente ha dolori crescenti e per prassi l’oncologo aspira la ascite e ce la rende disponibile. L’ascite è il microambiente all’interno del quale si sviluppa la metastasi e non è affatto comune nei diversi tumori poter studiare il microambiente tumorale. È anzi, direi, un aspetto specifico di questo tipo di tumore. Per questo, per lo studio pubblicato in Molecular Oncology abbiamo cominciato a isolare nelle pazienti con ascite, prima e dopo il trattamento chemioterapico, gli esosomi. Nello specifico isoliamo gli esosomi da due fonti: raccogliendo quelli che si trovano sparsi nell’ascite e che, quindi, derivano dalle cellule che li utilizzano all’interno dell’ascite come il sistema immunitario, i fibroblasti, le cellule tumorali e, poi, isolando le cellule tumorali metastatiche presenti nell’ascite per capire che tipo di esosomi producano. Con uno studio di proteomica ci siamo subito accorti di alcuni aspetti molto interessanti che si esprimono in questi esosomi. In particolare, abbiamo trovato molto interessante l’aspetto dell’attivazione piastrinica.

Perché vi interessa in particolare l’attivazione piastrinica?

Questa è la seconda parte dello studio che abbiamo appena completato e che in questo momento è sottoposta a peer review in vista di una prossima pubblicazione. L’attivazione piastrinica è particolarmente interessante perché, come è noto dalla letteratura, le piastrine sono protumorigeniche, partecipano cioè al meccanismo di metastatizzazione delle cellule tumorali e favoriscono la crescita dei tumori, ma è noto che ci sono già farmaci che la inibiscono (ad esempio, ma non solo, la cosiddetta aspirinetta usata anche dai pazienti cardiopatici). In questa seconda fase dello studio, dunque, noi, sia con le pazienti della prima fase dello studio, sia con altre che si sono aggiunte nel frattempo, andiamo a misurare il livello di attivazione delle piastrine nella ascite. Si tratta di un aspetto non banale perché nell’ascite le piastrine non ci dovrebbero essere. Normalmente, infatti, le piastrine si trovano nel sistema circolatorio, ma in questo caso “extravasano” (escono cioè dai vasi), entrano nell’ascite e si attivano. Quindi misurare e quantificare quando queste piastrine sono attivate all’interno della ascite ci consente di correlare questo fenomeno alle manifestazioni cliniche che ci interessano, come la risposta ai farmaci e la progressione della patologia. Possiamo così capire se l’attivazione piastrinica oggetto di studio cambia il comportamento del tumore. Per poter fare questo studio, cioè per capire come l’attivazione piastrinica modifichi la storia clinica della paziente e per eventualmente intervenire farmacologicamente, dobbiamo avere un test quantitativo che misuri in una data paziente il livello di attivazione piastrinica. Tutto ciò lo possiamo fare con gli esosomi perché la piastrina quando si attiva libera gli esosomi e gli esosomi liberati dalla piastrina sono esosomi specifici che hanno biomarcatori che non esistono negli esosomi liberati da altre cellule. Quindi, misurando il numero degli esosomi presenti nella ascite, possiamo capire quante piastrine sono state attivate.

Come siete arrivati a questa tecnologia di misurazione?

L’abbiamo messa a punto in questo secondo studio grazie a una piattaforma tecnologica innovativa, creata in collaborazione con la Gran Bretagna, che si chiama nanocitofluorimetria ossia una citofluorimetria di nuova generazione che ci aiuta a caratterizzare gli esosomi da un liquido biologico o da una cultura cellulare. È uno strumento straordinario perché, utilizzando degli anticorpi specifici marcati in fluorescenza, riusciamo a contare esattamente in una data popolazione di esosomi, quanti esosomi hanno un biomarcatore rispetto a un altro. In questo modo abbiamo fatto un passo avanti rispetto al lavoro pubblicato su Molecular Oncology perché là abbiamo verificato che le cellule tumorali “parlano” con le piastrine, adesso andiamo a trovare strumenti per quantificare questo “dialogo”, perché se vogliamo fare test clinici non possiamo limitarci agli aspetti qualitativi, ma dobbiamo misurare queste grandezze. Noi siamo fiduciosi che questa tecnica messa a punto per il carcinoma ovarico possa essere utile anche per altri ambiti oncologici, anche in ambito pediatrico e anche in altre patologie.
Ultimamente, inoltre, insieme al Cnr di Bologna, che ha ricevuto appositi finanziamenti europei, stiamo caratterizzando gli esosomi grazie all’atomic force microscopy (microscopia a forza atomica) che usa delle leve (stiamo parlando di scale nanometriche, visto che gli esosomi hanno circa 80/100 nanometri di diametro) con le quali i nostri colleghi fisici sono in grado di dirci quanto essi siano grandi e quanto siano “soffici” e questo è un dato significativo perché più una cellula tumorale è aggressiva, più gli esosomi che produce sono duri.

Il vostro progetto, dunque, coinvolge più discipline e più enti?

Certamente uno dei punti di forza del nostro studio, svolto sotto la supervisione clinica del professor Giuseppe Ricci, è quello di essere interdisciplinare. Parte, infatti, dai chirurghi oncologi come Federico Romano che devono prelevare l’ascite evitando che si inquini con il sangue, passa per noi biochimici, come me, e biologi come la collega Barbara Bortot che dobbiamo trattare adeguatamente i campioni biologici e verificarne tutta una serie di standard di qualità, poi arrivano i chimici che ci aiutano a mettere a punto la nanocitofluorimetria con il miglior protocollo e i fisici che ci aiutano a guardare questi oggetti assicurandoci che stiamo guardando e analizzando gli oggetti giusti. Sicuramente, in tutto questo sono molto importanti anche i collegamenti con enti esterni al burlo come quelli nei quali operano i colleghi britannici e quelli bolognesi.

 

Data creazione: 
30/06/2022
Data di aggiornamento: 
30/06/2022
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