Paola Maura Tricarico, ricercatrice del laboratorio di Genetica Medica dell’Irccs Burlo Garofolo di Trieste, a partire dai capelli dei pazienti affetti dall’idrosadenite suppurativa, patologia dermatologica infiammatoria, realizza modelli in vitro per studiare la malattia e testare possibili strategie terapeutiche e farmacologiche.

Che cos’è l’idrosadenite suppurativa?
L’idrosadenite suppurativa, anche detta acne inversa, è una patologia dermatologica infiammatoria altamente debilitante. I pazienti, infatti, presentano noduli sottocutanei molto dolorosi e capaci, con il tempo, di provocare lesioni profonde estremamente fastidiose, suppurative e purulente che si trovano tipicamente nelle parti inverse del corpo ricche di ghiandole apocrine, quali ascelle, glutei, inguine, seno. Non riuscendo a rimarginarsi, spesso queste lesioni costringono i pazienti a operazioni chirurgiche per essere eliminate.
 
Quando insorge questa patologia?
 
Questa malattia, che si stima colpisca tra l’1% e il 4% della popolazione in generale, insorge tendenzialmente in età adolescenziale, essendo collegata alla fluttuazione ormonale. Negli ultimi anni, tuttavia, con l’aumento dell’interesse e della conoscenza nei confronti dell’idrosadenite suppurativa, stanno emergendo sempre più casi pediatrici. 
Le donne sono colpite in misura maggiore, quattro volte più frequentemente rispetto agli uomini ma, tendenzialmente, dopo la menopausa questa patologia regredisce. 
 
Come vengono trattati i pazienti affetti da acne inversa?

Attualmente si usano antinfiammatori, antibiotici e farmaci biologici, anche se gli esiti non sono dei migliori. Nonostante l’attenzione verso questa malattia sia aumentata, è ancora poco studiata e non esiste una cura. C’è ancora tanto da fare a riguardo.
 
La ricerca in questo campo a che punto è?
Al Burlo è in atto un progetto di ricerca che si concentra proprio sullo studio, dal punto di vista genetico, fenotipico e terapeutico, dell’idrosadenite supprativa e, in misura minore, della patologia di Dowling-Degos, malattia della pelle estremamente rara.
 
Per questo studio vengono raccolti campioni salivari di pazienti che afferiscono al Burlo, all’Ospedale Maggiore di Trieste e all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, centro nazionale di riferimento che tratta l’idrosadenite.
 
Dopo aver eseguito analisi genetica, per i soggetti di cui si riescono a individuare le alterazioni che causano la malattia, si prelevano dei capelli per proseguire con lo studio.
 
In che modo?
Dei 300 pazienti reclutati annualmente, sono circa una ventina quelli di cui, a partire dai capelli, si isolano cellule della guaina esterna della radice (Ors), i cheratinociti indifferenziati, presenti nel follicolo pilifero. Questa tecnica, per nulla invasiva, è molto adatta ai casi pediatrici; in alternativa, infatti, l’isolamento delle cellule viene eseguito da materiale derivante da biopsia di pelle.  Grazie ai cheracinociti, riusciamo a creare un modello di studio in vitro per vedere come si comporta il fenotipo correlato a quella determinata variazione genetica.
 
Contemporaneamente, si crea un altro modello genetico in vitro su cui poter lavorare: si parte da una linea cellulare di cheratinociti che vengono modificati geneticamente così da ricreare lo stesso genotipo a cui siamo interessati. In questo modo potremo capire e confermare cosa comporta la mutazione alle cellule e cosa succede a livello di infiammazione, di stress ossidativo e di formazione dei vari strati cellulari.
 
Con questo studio è possibile capire come reagiscono i pazienti ad un determinato farmaco o terapia?
Stiamo mettendo a punto un protocollo per creare in vitro la pelle tridimensionale dei vari pazienti così da testare, successivamente, diversi farmaci e terapie, come ad esempio la terapia laser. La pelle 3D diventa così uno strumento di tutela perché consente di fare prove farmacologiche di base senza coinvolgere direttamente il soggetto. Crearla è molto difficile, ci vogliono circa due mesi di lavoro.  
 
Qual è la soddisfazione più grande che le sta dando questo progetto?
Sicuramente poter dare una speranza ai pazienti che, in un futuro, potranno essere aiutati concretamente. I soggetti che partecipano al progetto, infatti, provenendo da anni di mancate diagnosi o cattive diagnosi, sono molto attenti e chiedono un riscontro costante.
 
Recentemente, su un paziente abbiamo individuato una mutazione molto interessante a carico di un gene che codifica per un peptide antimicrobico che si trova sulla pelle, secreto con il sudore. Nel caso di questo soggetto il peptide non è funzionante e dunque non riesce a svolgere la sua essenziale funzione antimicrobica.
 
Questa scoperta è stata condivisa con il paziente?

 Certamente, messo al corrente della situazione, il paziente ha mostrato fiducia, speranza ed entusiasmo verso possibili soluzioni future che potrebbero risolvere questo tipo di problema, come ad esempio la messa a punto di un cerotto in grado di rilasciare gradualmente il peptide sano, che stiamo sviluppando in collaborazione con l’Università degli studi di Trieste.
 
I tempi della ricerca possono essere lunghi, per questo ci vogliono pazienza e lungimiranza come quelle mostrate dal nostro paziente che, sapendo che forse questa soluzione non potrà essere sfruttata da lui direttamente, spera possa in futuro aiutare sua figlia, che presenta la medesima mutazione genetica.  

C.F.

Paola Maura Tricarico, ricercatrice del laboratorio di Genetica Medica dell’Irccs Burlo Garofolo di Trieste

Data creazione: 
15/12/2021
Data di aggiornamento: 
15/12/2021
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