Il Burlo A Trieste Next.
Intervista a Vincenzo Nigro Professore ordinario di Genetica Medica, Università “Luigi Vanvitelli” di Napoli e ricercatore associato al TIGEM – Fondazione Telethon.

Ci sono bambini che hanno una malattia, ma non un nome. Famiglie che passano da un ospedale all’altro senza ricevere una risposta. È per loro che nasce il programma “Malattie senza diagnosi” della Fondazione Telethon, presentato da Vincenzo Nigro a Trieste Next in un intervento a cura dell’IRCCS Burlo Garofolo.
Dal 2016 il programma Telethon “Malattie senza diagnosi”, da lui fondato e coordinato, ha dato un nome a quasi la metà delle patologie genetiche pediatriche ancora sconosciute: finora sono state analizzate circa 1500 casi fornendo una diagnosi al 49%. È un lavoro di rete che coinvolge molti centri pediatrici italiani.
Il genetista Vincenzo Nigro spiega perché, per capire il genoma, dobbiamo imparare a interpretare l’“ignoroma”.

 

Intervista a cura della Direzione Scientifica - Direttore Scientifico Prof. Massimo Zeviani grazie al supporto della dott.ssa Lorenza Masè. Si ringrazia per le foto la dott.ssa Denise Zerjal.

 

 

 

 

Professor Nigro, qual è la differenza tra una malattia rara e una senza diagnosi?
Le malattie rare sono patologie di cui conosciamo la causa genetica, anche se colpiscono poche persone. Quelle senza diagnosi, invece, sono ancora più orfane: non ne conosciamo l’origine. Senza individuare la causa genetica, non possiamo avviare un percorso di ricerca né immaginare una terapia. E chi non ha una diagnosi non può nemmeno collocarsi tra altri pazienti, creare associazioni o confronti.

 

È da questa constatazione che nasce il programma Telethon?
Sì. Il programma “Malattie senza diagnosi” è nato nel 2016 per offrire un percorso ai bambini con malattie genetiche gravi e test standard negativi. L’obiettivo non è solo scoprire nuovi geni, ma dare un significato ai casi orfani. Finora abbiamo analizzato circa 1500 casi e fornito una diagnosi al 49%. È un lavoro di rete che coinvolge molti centri pediatrici italiani.

 

Ma oggi possiamo leggere tutto il genoma. Perché è ancora così difficile capire?
Perché leggere tutto non significa comprendere tutto. La tecnologia ci permette di leggere un genoma intero in pochi secondi, ma la parte complessa è l’interpretazione. I software restituiscono ciò che già conosciamo: il vero avanzamento è nella capacità di capire e confrontare i dati. È questo che trasforma l’informazione in conoscenza.

 

Come è cambiata la capacità di “leggere” il DNA?
Negli anni Ottanta leggevamo tremila basi di DNA in un giorno. Oggi possiamo leggere miliardi di basi: un intero genoma – tre miliardi di lettere – in circa 33 secondi, a costi ormai bassissimi. È una rivoluzione, ma dobbiamo evitare l’effetto Dunning-Kruger: saper leggere tutto non significa sapere tutto.


 

 

Lei ha parlato di “ignoroma”. Cosa intende?

È tutto ciò che non sappiamo ancora del genoma. Oggi conosciamo i geni-malattia associati a circa il 7% dei geni esistenti, e ogni anno se ne scoprono circa 150 nuovi. La prossima frontiera non è leggere meglio, ma comprendere l’immenso territorio dell’ignoto.

 

Come funziona concretamente il programma?
I casi vengono selezionati con criteri precisi e discussi collegialmente. Si tratta di bambini con genitori non affetti e test genetici standard – come l’esoma – risultati negativi. È un lavoro di rete: la genetica senza la clinica non funziona. Le macchine leggono, ma è il clinico che capisce cosa cercare.

 

Le nuove tecniche hanno ancora limiti?
Sì. Non leggono circa il 15% del genoma, e nell’interpretazione si può perdere un altro 20%. È come avere i frammenti di un vaso: se non riesci a rimetterli insieme, il disegno resta incompleto.


Eppure quasi metà dei pazienti oggi ha una diagnosi...
Sì, e in alcuni casi abbiamo identificato geni malattia mai descritti prima. Spesso grazie al confronto internazionale: un bambino in Italia e un altro dall’altra parte del mondo con la stessa mutazione ci permettono di riconoscere una nuova patologia.

Quanto pesano le mutazioni de novo?
Circa il 70% dei casi risolti è dovuto a mutazioni nuove, non ereditate dai genitori. Nell’80% dei casi derivano dai gameti maschili: l’età paterna influisce sul rischio di mutazioni, in particolare nelle malattie del neurosviluppo.

 

E i casi ancora senza diagnosi?

Li rianalizziamo periodicamente. Oggi studiamo anche l’RNA, che può rivelare mutazioni invisibili nel DNA. Attualmente conosciamo 4607 geni-malattia su circa
23.000 geni che codificano proteine, e in totale oltre 60.000 geni, molti dei quali producono RNA funzionali — molecole che non vengono tradotte in proteine ma regolano numerosi processi cellulari.
In pratica, conosciamo solo il 7% del genoma. Ecco perché dobbiamo parlare non solo di genoma, ma di ignoroma.

 

Dopo quasi dieci anni di programma, qual è il risultato più importante?
Aver cambiato prospettiva. La ricerca sulle malattie rare era individuale; oggi è profondamente collaborativa. Ogni diagnosi nasce dal confronto tra ricercatori, clinici e famiglie. È questa la forza del programma: la conoscenza collettiva.

 

Data creazione: 
20/10/2025
Data di aggiornamento: 
20/10/2025
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