Mi è capitato di recente di essere invitato a parlare di vaccinazioni a un’assemblea di mature signore, in larga parte ultrasettantenni. Non saprei rispondere alla vostra domanda sul perché, per come, per cosa l’abbia fatto. Ma una cosa voglio dirvi con sicurezza: è stata un’esperienza illuminante. Le prime diapositive che ho proposto mostravano gli italiani in piazza in due momenti storici diversi: nel 1956 (tutti piuttosto cupi, angosciati per l’epidemia di polio ancora in corso, con vestiti poveri, con striscioni molto artigianali e traballanti), per chiedere al governo che si sbrigasse a distribuire la vaccinazione antipolio, che non la tenesse nascosta quando gli americani ce l’avevano già; e ai giorni nostri (tutti piuttosto festosi, tutti leggeri e spensierati verrebbe da dire, con tanti cartelli colorati), per invitare tutto il mondo a sottrarre i propri figli ai danni delle vaccinazioni e a stare in guardia contro tutti i veleni che ci starebbero nascosti dentro. Quando, subito dopo, ho chiesto alla sala che cosa faceva diverse le persone che partecipavano alle due manifestazioni, le arzille vecchiette, attente e interattive come pochi altri uditori io abbia mai incontrato, non hanno avuto dubbi: “la memoria” hanno detto, “la memoria” hanno ridetto a voce più alta. “Senza dubbio la memoria”. E a quel punto si è scatenata l’aneddotica, in una gara di racconti partecipati, particolareggiati, angosciati anche, di cosa avevano visto o patito loro stesse, di come si viveva prima che ci fossero le vaccinazioni che oggi vengono contestate. Non senza trasmettere una contagiosa commozione, quando veniva ricordata una congiunta morta di difterite o la migliore amica, promessa dell’atletica, finita in carrozzella con la polio (e tutte, tutte ricordavano di aver condiviso il dramma di un amico, di un compagno di scuola e sembravano rivivere l’angoscia dei loro genitori nell’aspettare impotenti, diffidenti del prossimo, che l’epidemia passasse e arrivasse la vaccinazione). In fondo alla sala, qualcuno dei soliti antivaccinatori l’avevo visto. All’inizio aveva anche alzato la mano per prendere la parola, ma ha presto rinunciato. E a un certo punto, ascoltata una buona dose di racconti e testimonianze, li ho visti andarsene rinunciando a dire (non era mai successo prima nella mia esperienza) le solite sconsiderate, irresponsabili nefandezze: in quella assemblea, così piena di testimonianze e di memoria, non sarebbero state sostenibili né tantomeno tollerate. Semplicemente non sarebbero nemmeno state pronunciabili. Dovrebbe essere così anche nei nostri ambulatori, sui giornali, negli incontri, su internet, sulle riviste scientifiche. Smettiamo di giocare in difesa (“non è vero che le vaccinazioni fanno male, non è vero che viene l’autismo, non è vero che ci sono i veleni dentro”) per controbattere le stolide parole degli antivaccinatori. Ma diamo voce e libertà, senza pudori, alla giusta violenza della memoria. Magari trovando ognuno di noi un combattivo vecchietto cui chiedere aiuto nel momento del bisogno.

Contributo scritto dal prof. Alessandro Ventura

Pubblicato sulla rivista Medico e Bambino 2017;36:81

 

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