di Caterina Fazion

Per una malattia così complessa e insidiosa come il tumore ovarico, è fondamentale impiegare gli sforzi della ricerca scientifica per migliorarne diagnosi e terapia, valorizzando le esigenze delle singole pazienti. La dottoressa Stefania Biffi, ricercatrice della Clinica Ostetrica e Ginecologica del Burlo Garofolo, racconta quanto il lavoro di squadra, svolto insieme a oncologi, farmacologi e ginecologi, faccia la differenza.

Quale pensa sia la cosa più importante nella ricerca sul tumore ovarico?
Da quando, nel 2016, ho iniziato a occuparmi di tumore ovarico, metto sempre in primo piano la possibilità concreta di aiutare le pazienti nella diagnosi e nel trattamento di questa complessa patologia. Prima di iniziare qualunque ricerca discuto sempre con i medici per essere certa di andare nella direzione giusta per fornire tecnologie e conoscenza che aiutino farmacologi, oncologi e ginecologi a fare le scelte più appropriate e personalizzate verso le singole pazienti.


Quali studi sono attualmente in corso al Burlo Garofolo per  migliorare diagnosi e trattamento del tumore ovarico?
Al Burlo seguiamo due filoni relativi al carcinoma ovarico: uno riguardante la terapia e l’altro riguardante i marcatori della patologia che indicano lo sviluppo o la regressione del tumore stesso. In entrambi i casi si tratta di ricerche traslazionali, cioè puntano a combinare discipline, risorse, competenze e tecniche per promuovere miglioramenti nella prevenzione, nella diagnosi e nelle terapie del tumore.
Sul fronte terapia abbiamo moltissime collaborazioni: il Politecnico federale di Zurigo, ad esempio, è impegnato a realizzare materiali per incapsulare farmaci che siano portati nelle cellule tumorali in maniera efficace. Con l’Università di Bologna, invece, abbiamo iniziato a utilizzare particolari virus ingegnerizzati che esprimono sulla loro punta un peptide in grado di riconoscere le cellule tumorali, all’interno delle quali entrano, rilasciando radicali liberi che provocano la morte della  cellula tumorale.


Come si fa a capire se una paziente sta rispondendo alle terapie per sconfiggere il tumore?
Su questo fronte è in atto una ricerca che consiste nell’isolare cellule tumorali all’interno delle asciti delle pazienti, ovvero nel liquido presente in eccesso nell’addome, che può raggiungere quantità di 8-10 litri.  Le cellule tumorali producono e secernono più acidi nucleici, proteine ​​e lipidi rispetto alle cellule normali e queste molecole vengono trasportate nel sangue o intorno alle cellule in vescicole chiamate esosomi che noi ci occupiamo di profilare e studiare per capire quali informazioni ci forniscono circa sviluppo, progressione e metastasi del cancro, indice di come le pazienti stanno rispondendo alla terapia. Proprio su questa scia abbiamo in previsione di realizzare un progetto che, sempre tramite lo studio degli esosomi prodotti dalle cellule tumorali, si propone di profilare geneticamente le pazienti che sviluppano resistenza a particolari farmaci antitumorali chiamati Parp-inibitori che rappresentano una nuova frontiera nel trattamento del carcinoma ovarico.


Quali pazienti possono beneficiare dell’utilizzo dei Parp-inibitori?
Le donne portatrici di mutazioni nei geni Brca 1 e 2, ovvero quelle con elevato rischio di sviluppare tumori al seno e all’ovaio, sono candidate all’utilizzo di questi farmaci. Tuttavia, alcune di loro potrebbero manifestare farmacoresistenza e dunque non rispondere alla terapia. Compito fondamentale della ricerca sarà proprio quello di mettere a punto test per capire chi, potenzialmente, può rispondere alla terapia con Parp-inibitori, cercando inoltre di indagare se sia possibile prevedere lo sviluppo di farmacoresistenza ed, eventualmente, evitarlo.

Cosa rappresenta per lei la ricerca?
La ricerca è unicamente un lavoro di squadra. Nello specifico, sul tema del tumore ovarico, trattandosi di una malattia molto impegnativa, spesso diagnosticata tardi, avere la possibilità di confrontarmi con oncologi e ginecologi, che raccontano le esperienze delle loro pazienti, restituisce un senso concreto a quello che faccio. Lavorare insieme non significa solamente scambiarci una provetta o condividere un dato: deve esserci un trasferimento di conoscenza e di esperienza. La ricerca cambia tutti, sia quelli che la fanno, sia i pazienti che ne ricevono i benefici. Fondamentale è la contaminazione multidisciplinare e dialogo costante tra le persone e l’inglese, lingua così schietta e universale, sicuramente semplifica le cose.

Dott.ssa Stefania Biffi, ricercatrice della Clinica ostetrica e Ginecologica del Burlo Garofolo di Trieste

Dottoressa Stefania Biffi, ricercatrice della Clinica Ostetrica e Ginecologica del Burlo Garofolo

Data creazione: 
18/06/2021
Data di aggiornamento: 
18/06/2021
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