“Ho offerto per la prima volta al mio bambino il latte in polvere. Dopo pochi minuti ha pianto, ha vomitato e si è riempito di macchie rosse. Il pediatra mi ha detto che potrebbe essere allergico. Ho sentito che al Burlo curate le allergie alimentari anche gravissime. Che cosa dobbiamo fare?“ Questo è solo uno dei tanti racconti che ascoltiamo quando accogliamo le famiglie nel Servizio di Allergologia dell’Ospedale Burlo Garofolo di Trieste. L’allergia alimentare è un fenomeno crescente nelle ultime decadi e  rappresenta la causa più frequente di “anafilassi”, termine utilizzato per etichettare tutto quell’insieme di sintomi sistemici (quando sono interessati più organi) che compare acutamente dopo l’esposizione ad un allergene (ad esempio il latte) ed è innescata da un meccanismo mediato da una classe di anticorpi chiamati immunoglobuline E (IgE). Si ritiene che una delle principali  cause dell’aumentata prevalenza dell’allergia alimentare risieda nelle politiche internazionali di prevenzione, che fino a pochi anni orsono raccomandavano di ritardare l’introduzione di alimenti potenzialmente allergizzanti in bambini a rischio atopico, ad esempio perché figli/fratelli di soggetti allergici, o perché affetti precocemente da eczema atopico.
Oggi molti autori sono concordi nel sostenere che la politica dell’evitamento, (in inglese “avoidance”) sia stata deleteria e che proprio i soggetti a rischio siano quelli in cui una ritardata introduzione possa aumentare la probabilità di sviluppare allergie IgE mediate.
Ci sono poi i bambini che alla prima introduzione di un alimento, anche se precoce, sviluppano comunque una reazione allergica acuta, già entro il primo anno di vita. Come è ovvio comprendere gli alimenti chiamati in causa sono quelli più comunemente usati nelle nostre case, ad es. latte, uovo e frumento. In questi casi, una volta confermata l’allergia, il bambino viene di solito sottoposto a rigide diete di eliminazione dell’alimento offendente, facendo attenzione alle minime quantità e tracce nascoste in altre formulazioni alimentari anche molto lontane dal prodotto originale (basti pensare ai biscotti e alle torte) per evitare reazioni allergiche che si teme possano essere  fatali.
L’allergia diretta verso allergeni così comuni nella nostra quotidiana alimentazione determina un significativo condizionamento nella vita del bambino e dell’intera famiglia. Impone infatti di evitare costantemente l’alimento offendente, con il timore che un’ingestione accidentale possa scatenare una reazione anafilattica e con la sofferenza nel vedere il proprio bambino  “diverso” dagli altri, limitato da diete troppo restrittive con rischio di deficit nutrizionali. Basti pensare che circa il 50% dei bambini con allergia IgE-mediata ingerisce accidentalmente l’alimento offendente almeno 1 volta in 5 anni e il 75% in 10 anni. Fortunatamente una certa quota di questi bambini, mantenendo una rigorosa dieta di eliminazione, guarisce entro i primi 3-4 anni di vita, al prezzo però di un importante sacrificio da parte dell’intera famiglia. Tuttavia in più del 20% di essi persiste una severa sensibilità anche nelle età successive e ad un certo punto con l’aumentare dell’età diminuisce la probabilità di assistere ad  una risoluzione spontanea di questa patologia.
Da ciò nasce l’idea di tentare una precoce reintroduzione dell’alimento offendente, al fine di sviluppare nel tempo una tolleranza verso lo stesso. Presupposti fondanti del rivoluzionario progetto “lattanti al bivio” che riguarda appunto i lattanti del primo anno di vita che alle prime ingestioni di discrete quantità di uno di questi alimenti (latte, uovo, frumento) abbiano presentato una reazione allergica acuta immediata e siano sensibilizzati verso l’alimento stesso (sensibilizzazione confermata mediante test cutaneo chiamato “prick test” o con il dosaggio ematico delle IgE specifiche). Il bivio di questi piccoli pazienti si impone tra la rigorosa eliminazione e la reintroduzione precoce dell’alimento, il prima possibile.  A questi lattanti vengono offerte in ambiente ospedaliero “protetto”, piccole dosi di alimento, ad esempio latte vaccino,  diluito in acqua o altro liquido (latte di soia, idrolisato), nell’ordine di pochi millilitri (1 ml, 5 ml e 10 ml).  Se il bambino tollera queste dosi, mantiene a domicilio una somministrazione quotidiana pari a quella testata in ospedale, con le stesse modalità e  dopo 2-3 settimane viene nuovamente visto in ambulatorio allergologico per raddoppiare la dose.  Questo approccio, sperimentato ormai in circa 200 bambini, porta in pochi mesi ad una liberalizzazione della dieta nei confronti dell’alimento considerato, con una progressiva riduzione fino alla totale negativizzazione delle Ig E specifiche e la consensuale comparsa di anticorpi detti IgG4, considerati gli “anticorpi della tolleranza”. In pratica in un tempo medio di 5 mesi e mezzo, il 90% dei lattanti curati con questo approccio è guarito da un’allergia che avrebbe potuto condizionare pesantemente la qualità di vita, dell’intera famiglia.
Si assiste infatti alla risoluzione del problema prima ancora che il  bambino possa rendersi conto di essere mai stato allergico.  A distanza di molti anni dall’inizio del progetto “lattanti al bivio”, la soddisfazione più grande   del Servizio di Allergologia è la profonda gratitudine delle famiglie e la gioia dei piccoli pazienti.

Testo scritto dalla dott.ssa Irene Berti
aggiornamento giugno 2019

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